Notte agitata sul miradouro. Ci aspettavamo l’alba, ma le nuvole hanno deciso di non concedercela. Quindi ci siamo preparati il tè dentro la tenda, ci siamo mangiati qualcosa per iniziare la giornata, abbiamo richiuso tutto il bivacco e abbiamo ripreso il cammino, lasciando un luogo che, alla luce offuscata della mattina, mi ha trasmetto solitudine e totale incertezza. Incertezza negli elementi e la certezza di essere circondati dai mari del mondo, con tutto ciò che le acque blu dell’oceano creano nel cuore degli uomini.

Dal giorno prima, avevamo tentato di capire se ci fosse la possibilità di raggiungere il pico più alto. Così proviamo a raggiungerlo, ma senza zaini sulle spalle, che lasciamo temporaneamente rifugiati addosso al muro che ci ha protetto durante la notte, coprendoli con i nostri kway distesi su un paio di pezzi di legno trovati lì vicino.

Leggeri, prendiamo il sentiero: una traccia nell’erba altissima, piena dell’umidità del mattino e dell’acqua scesa dal cielo nella notte. Nuvole grigie sopra di noi e, appiccicata addosso, la sensazione di quella strana libertà che l’essere umano ritrova la mattina, quando dorme senza dover aprire una porta di casa e andare a fare un lavoro per servire qualcun altro della sua stessa specie.

Niente da fare. Alla fine del sentiero, ci ritroviamo dinanzi un dirupo, una manciata di alberi strapazzati dal vento e, alla nostra destra, una strada in costruzione, piena di fango. Ma non molliamo. Poco più avanti, una sterrata sembra aggirare l’alta collina che ci sta davanti. Percorriamo qualche centinaio di metri, solo per scoprire che il pico che stavamo cercando, è troppo distante da noi e, a separarci, ci sono colline e foreste. Così ci ritroviamo davanti solamente una spianata fatta dall’uomo, con una strana piscina al centro, dove termina quello che mi era parso un gasdotto, lo stesso che ci aveva accompagnato fin lì dall’inizio della strada.

Un paesaggio apocalittico. Il peggior volto della nostra specie. Una visione prepotente in un paesaggio che si meriterebbe ben altro.

Sconsolati, torniamo sui nostri passi. Con i piedi bagnati, imbocchiamo il sentiero segnalato sulla mappa, cominciando a scendere di quota.

Poco dopo, incontriamo di nuovo le prime mucche al pascolo, mentre un profondo odore di zolfo impernia l’aria attorno a noi, proveniente dalle vicine centrali geotermiche. Intanto io osservo il paesaggio, soprattutto alcune colline a forma piramidale, permettendomi di navigare tra le mie fantasie mitiche.

Con mio grande dispiacere, mi accorgo e devo ammettere, che mi sono ritrovato completamente disorientato, quando ci ritroviamo nello stesso punto di partenza del giorno prima. Le mie capacità d’orientamento saranno da rivedere in futuro…

Comunque riprendiamo l’asfalto, fino a quando raggiungiamo il bivio che ci riconnette con un’altra delle strade principali dell’isola. Lì, ci ritroviamo a decidere sul da farsi: visitare la Gruta do Natal (chiamata così perchè il 25 Dicembre 1969 si tenne una messa proprio al suo interno) o proseguire ancora qualche km, raggiungendo il sito di Algar do Carvão, sempre sito di interesse speleologico.

Mentre conversiamo su quale decisione prendere, dalla strada arriva una mandria di vacche coi rispettivi mandriani, che invadono la strada prima di virare sulla salita che porta alla Guta do Natal. Tentiamo di fermare uno dei due giovani mandriani; gli chiediamo se parla inglese, lui ci risponde che sì, ma solo un poco. Velocemente gli chiediamo l’informazione, ma ci abbandona tre secondi più tardi dandoci una risposta distratta, iniziando a correre verso le sue mucche. E così ci ritroviamo senza alcuna buona informazione per intraprendere quello che era il nostro piano originale: attraversare l’isola a piedi, per arrivare in serata ad Angra do Heroìsmo.

Alla fine decidiamo di prendere anche noi la salita, andando dietro le mucche ma, mentre camminiamo, provo a scrivere a Carlos per ricevere, almeno da lui, qualche aiuto.

Niente da fare: col cellulare quasi scarico e con l’offerta di un passaggio fino alla città da parte di Carlos, attendiamo che ci raggiunga sul posto, annesso al mio errore di aver preso la decisione da solo, senza il consenso di Davide che in quel momento mi era distante.

Ma solo quando ci raggiunge, capiamo che non ha capito le nostre intenzioni: gli avevo chiaramente scritto per messaggio che sì, il passaggio lo accettavamo volentieri, ma prima di raggiungere la costa, volevamo almeno fare almeno un giro nella zona attorno al sito della grotta. Ma capiamo subito che non erano anche le sue intenzioni.

In questi casi, si dice: misunderstanding. Anzi, travel misunderstanding, perchè quando viaggi in questo modo, devi essere flessibile come un ramo di bambù se non vuoi rovinarti l’umore per il resto della giornata.

Fatto sta che saliamo in macchina e, come da sua abitudine o deformazione professionale, Carlos ci fa fare un rapido tour della parte sud-occidentale dell’isola, fermandoci nei punti più turistici e suggestivi. Nonostante tutto, reputo sempre una fortuna, durante un viaggio, soprattutto in un posto così peculiare, incontrare un cosiddetto local e guardare un luogo attraverso i suoi “occhi casalinghi”.

Passiamo il pomeriggio con lui, passando ai piedi del vulcano di Santa Barbara che, per nostra sfortuna, lo abbiamo sempre trovato coperto da fitti banchi di nuvole nere. Interessante notare ed osservare il clima sull’isola: per esempio, nei giorni passati su Terceira, quei banchi non si sono mossi da lì, lasciando però aperta al sole, tutta la costa meridionale che, al crepuscolo, ci ha regalato per più di una volta, splendidi arcobaleni provocati dall’elevata umidità oceanica.

Così visitiamo i villaggi dei pescatori lungo la costa, piccoli centri abitati alla fine della lunga corsa di colline che creano la parte occidentale dell’isola e, infine, raggiungiamo Angra do Heroìsmo. Carlos ci lascia davanti alla porta del nostro ostello che si trova esattamente affacciato sulla piazza principale della cittadina. E, ormai entrati in amicizia, ci diamo appuntamento per le 20 per andare a mangiare qualcosa insieme.

L’entrata dell’ostello si trova nel chiostro del bar (il proprietario dell’ostello è lo stesso del bar). Con i nostri zaini voluminosi, passiamo davanti ai tanti tavolini come personaggi stravaganti per quel contesto cittadino-quotidiano. Saliamo per una scala tinta di bianco ed entriamo in un ambiente davvero ben curato, ma soprattutto accolti dalla gentilissima ospitalità di Margarida, ragazza dalle diverse origini, tra cui sangue irlandese – tanto che ci suggerisce di chiamarla Maggie –  accompagnandoci nella nostra stanza. Anche qui, sembra che siamo gli unici ospiti.

Ci sistemiamo, ci fiondiamo nei bagni per farci una doccia, laviamo tutti gli indumenti possibili (tra cui le scarpe). Aspettiamo che tutto si asciughi, anche per evitare di andare in giro scalzi e poi, avvicinandosi l’ora del tramonto, ci dirigiamo verso il luogo che più mi ha attirato e affascinato di Angra do Heroìsmo: Monte do Brazil.

In ogni mio viaggio mi sono reso conto di una cosa: appena arrivo in un centro urbano, piccolo o grande che sia, ho il bisogno di dirigermi prima di tutto in alto, laddove posso guardare le cose, le persone, i palazzi da un altro punto di vista (un po’ come suggerisce di fare ai suoi studenti il professor Keating in “Dead Poets Society”, film del 1989 con Robin Williams, conosciuto da noi anche come “L’attimo fuggente”, riprendendo le parole ottocentesche di Henry David Thoreau: https://youtu.be/1k7xm110VZA )

Arriviamo all’ingresso di quella che è stata la più grande fortezza costruita dagli spagnoli all’infuori della penisola iberica, dove una giovanissima ragazza in divisa ci saluta, in tutto stile,  col saluto militare; poi ci avviciniamo, chiedendole se fosse ancora possibile salire al parco e viene fuori tutto il suo imbarazzo giovanile per il suo inglese mancato, tipico di una ragazza che si trova davanti a due ragazzi stranieri, dimenticandosi, per un attimo, della maschera che è costretta ad indossare per tutto il giorno.

Avando a disposizione solamente un’ora prima della chiusura del parco, cominciamo a camminare seguendo prima un sentiero tra gli alberi, poi una strada asfaltata che ci porta ad un pianoro dove  le diverse diramazioni del parco fuggono alla vista addentrandosi nelle due lingue di terra lasciate dal vulcano. Lì, una colonia di gatti aspetta ogni giorno le carezze dei visitatori e di qualche lavoratore che si concede un po’ di natura dopo una giornata passata davanti ad un computer, mentre famiglie di galline, oche ed anatre camminano indisturbate. Facciamo due passi nella zona, senza addentrarci negli altri sentieri, lasciandoci l’esplorazione per il giorno successivo.

Tornando all’ingresso, ormai la luce è svanita dall’altro lato del globo, quando improvvisamente ci troviamo davanti un branco di cervi giapponesi che sta brucando dell’erba. Spaventati dalla nostra presenza, fuggono impauriti. Sempre una sensazione meravigliosa trovarsi vicino al selvatico!

Torniamo all’ingresso. La giovane soldatessa non c’è più. Turno cambiato. Da lontano saluto il suo collega, precisissimo nel suo saluto, e allora anch’io lo saluto alzando una mano sulla mia fronte.

Rientriamo tra le strade di Angra. Aspettiamo Carlos, che ci porta a mangiare in un locale abbastanza affollato, situato due strade dopo l’ostello. Mangiando prevalentemente vegano o vegetariano, per me la scelta è spesso scontata, ma quella sera ho avuto la fortuna di mangiare una buonissima insalata coi legumi (occasione da apprezzare), con il solo svantaggio di non assaggiare le pietanze tipiche delle Azzorre, perchè a base di carne. (Ma credo che ci siano valori più importanti da preservare a sfavore del gusto della propria lingua, che può benissimo essere deliziata in altri modi).

Fatto sta che alla fine la serata si conclude come mai avrei immaginato: d’un tratto, una conoscente di Carlos, si palesa al tavolo con una bottiglia di vino. Ce la offre. Ecco fatto! Carlos non beve e quindi la bottiglia è finita per essere elaborata dai nostri fegati. Risultato: passeggiare per Angra do Heroìsmo un po’ alticci ed io costretto a raggiungere gli scogli per urinare al buio. Un effetto sempre particolare per uno, come me, che non è solito all’alcol. Ma, alla fine dei conti, ci siamo divertiti!

Crolliamo sui letti dell’ostello, non prima di esserci fatti un altro paio di risate. Buonanotte.

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